Non rivedrai quegli occhi, nè la luce della luna che li imperla. Quando sei immobile nel buio e protendi muto la canna del tuo fucile, quegli occhi ti osservano basiti. E quando percuoti quelle guance o stringi con morsa potente il braccio inerme, quando ti ergi sicuro, quando apprendi ad odiare, quando il morso gelido della paura afferra il bandolo della tua anima trasformandosi in rabbia, quegli occhi lunari, immobili fissano il tempo, dilatati nella sua stessa misura.
Quando le membra sono
appannaggio altrui, il peso della vita sembra quasi
sospeso e gli ordini si distendono sulla tua schiena
come un morbido, ingannevole basto. Mentre esegui i
misfatti altrui, quegli occhi umidi cedono alla fretta
di guardare altrove: un sasso, un muro, una mosca su
un escremento, tutto pur di evitare i volti bianchi
bianchi delle vittime, il colore livido
dell'ingiustizia, la maestosità dell'onta che investe la
tua anima di guerriero, il suo aderire, pervadere,
impregnare. Gli occhi di un bambino che credeva di essere te, che sperava nella tua vita, ora la osservano sempre da più lontano, ogni volta, ed ogni volta, ed ogni volta, fino a che le abitudini diventano l'unica ancora di salvezza e un feroce cinismo s'impossessa del Reame della Speranza e lo svuota, là, nel cuore di un bambino ormai troppo lontano. Carcerato in un vestito porti imbelle la rovina al mondo e le tue catene. Luigi Vittori dedicata ad un avvocato [...], probabile collettore di tangenti ed operante in prevalenza nel settore della sanità, da me conosciuto oggi, con sommo schifo, [...] marzo dell’anno [...] dell’ultima Stazione del Kali Yuga.
Ratto, lurido, avido, serpe di un ratto, zecca parassita, untore, ladro, grassatore, bestia viscida, stragista di sogni, cannibale, demone immondo, gramigna della terra; sei come il veleno nel circolo sanguigno: aggrappato al ventre del lavoro altrui, corrodi le membra protettive della fratellanza universale entro le pieghe della quale pure alligna la tua schiatta infame. Tu, che agisci immune da ogni onore e ti dimeni, mostrando impudico le tue vergogne nel fetido teatrino umano, amante dell’infame plauso dei tuoi sodali, sottrai a man salva ogni bene alla tua portata, ogni oggetto incustodito e quando s’ode il risuonar de’ passi tuoi, con esso giunge il lezzo della tentazione. Subdolo secondino delle carceri infernali, corrompi le tue vittime con la tracotanza propria degli scellerati avvezzi ad ogni come. Sordo alla dolce melodia degli Angeli, lavori infaticabile all’altrui condanna nel mentre sconti la tua, disgraziato infetto, riempi il mondo dei tuoi miasmi che oscurano il sole, densi della sete di possesso che propaghi come quel cane di Satana che sei, che dichiaratamente sei, che vanitosamente ti proclami. Quando gli effetti nefandi del tuo appetito spargono la disdetta sulla faccia pura del tempo, il peso della vita s’aggrava sulle spalle dei fragili, i deboli s’arrendono all’inerzia, i forti s’allineano, sopraffatti dalla sfiducia e i puri sanguinano, feriti in fronte dalle spine dell’ingiustizia. Ah! Maledetto sterco dell’inferno! Némesi inattesa e sconosciuta che imponi la tua gogna al mondo intero! Ospedali, asili e cimiteri, municipi e opifici, lotti e terreni; musica, libri, notizie, quadri, immagini e pensieri; latte, sughi, acque, olii, carni umane e bovine, sementi e frutti; ore altrui e giorni e mesi e anni e poi ancora radici, fusti, foglie, linfa e cieli e volpi e insetti ed agili giaguari, e rondini (rondini!) tutto trascinano le tue spire tra le avide fauci della tua famiglia, che tutto consumano, destinate anch’esse a bruciare nella fucina della tua vanità. Il tuo monumento funerario sarà testimone di reni rubati, di foreste segate, fiumi morti, cibi avariati e provette infette, e bombe a grappolo e innocenze perdute. Sei il macigno che sbarra l’accesso all’ipermondo, anche per me, che scrivo intingendo nel fiele la mia penna. Accompagnandomi a Marte Luigi Vittori |
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E allora? Dice che quando sei bambino e ragazzo ci sono sempre dei rompicoglioni che ti rompono i coglioni anche se non li hai. Io sono stato uno di quelli, a modo mio ma lo fui: preferivo fare il bullo con quelli che si portavano da mangiare, piuttosto che irridere od infierire su qualcuno senz’altro scopo che il piacere della vessazione. Quelli che all’epoca chiamavo “ricchioni” in realtà non li conoscevo. Ce n’era uno solo in tutto il liceo, si chiamava Gianfranco e mi faceva ridere un sacco perchè aveva la lingua tagliente y puntiaguda e nessuno riusciva a batterlo a meno di tentare apertamente la via dell’ingiuria. Molti lo facevano, ma non avevano stile, l’ho sempre pensato: anche per essere un sopraffattore ci vuole un certo stile. Facevo il bullo, del resto me lo potevo permettere, non tanto per la presunzione che mi portavo cucita addosso, quanto per il fatto che non tollerando l’autorità, mi ero risolto ad esercitarla. Per farlo, però, per ottenere lo scettro della sezione A del Liceo Ginnasio R. Bonghi, dovevo prima passare per una volontaria gavetta fatta di pugni, ogni volta che andavo in bagno. Lì c’era una specie di capo: Emanuele, un gigante di cento chili che aveva letto nei miei occhi la determinazione a non lasciarmi calpestare, così, ogni volta che ci ritrovavamo in bagno mi riempiva di pugni per temprare la mia fibra, essendo, io, il suo delfino. Dopo il dolore, il rispetto. Gli avevo dato il permesso di farmi del male ovvero lui aveva capito che, nonostante il mio metro e quarantasette e l’assenza di peli pubici, occorreva il mio consenso per farmene. E così fu che diventai una specie di oligarca della scuola, anomalo, ma oligarca. Il che mi dava diritto di farmi portare un panino dai più piccoli e di togliere e dare e ritogliere il microfono a chiunque, durante le assemblee d’istituto. Non ero odiato, ne sono sicuro, temuto da qualcuno, invidiato da molti, usato da chiunque. Eh sì, perchè più che spaccone ero un guascone: “Credi di farmi paura?” era il messaggio stampato sul mio grugno ogni volta che affrontavo il preside su procura. Ero una specie di guappo delle leggende napoletane, ma i ricchioni no: tranne Gianfranco non ne conoscevo nessuno. Inutile dire che soffrivo dentro di me tutti i dolori dei giovani e mi portavo addosso una paura continua, amplificata; una fobia, un’insicurezza che mi accompagnava durante tutto il tempo. Avevo paura delle stanze vuote, del buio, del vento, ma più di tutto mi terrorizzava l’idea di essere rifiutato. E allora m’imponevo, dando vita ad un castello di menzogne, un vortice di atteggiamenti tali da compiacere, sbalordire o semplicemente spaventare chi avevo di fronte. Ma non ero io, era la mia paura a farlo per me. Gli ABBA impazzavano ancora e per darmi forza mi ripetevo che “The winner takes it all”... e intanto mi consumavo in una recita che sarebbe durata ancora per molti anni. Fino a che, durante una gita a Verona... Eravamo in autobus intenti a fare un casino indiavolato, avevamo preso certamente di mira qualcuno, ma ci tenevamo nei ranghi, tutti, con la felicità di giovani tigri ad una delle prime battute di caccia... tutti. Grida, canti, gavettoni, urla e poi ancora canzoni e ancora urla... anche l’autista sorrideva stanco, con lo sguardo che andava e veniva dallo specchietto all’enorme parabrezza. Gianfranco aveva preso posto davanti, inginocchiato sul sedile partecipava felice cantando e sbeffeggiando, poi, quando fu il suo turno di essere canzonato fece per me un gesto che mi segnò la vita: contestò a raffica gli improperi salaci a cui andava soggetto con una serie di battute che ci fecero lacrimare dalle risa e poi... e poi, quel diciottenne cicciottello, con la sua mascella di catrame – aveva una ricrescita immediata folta, nera e dura– prese una bottiglia di spumante, la stappò e a chi gli urlava che gli sarebbe piaciuto che quella bottiglia fosse stata un bel cazzo, rispose urlando ridanciano: “Ebbene sì! Sono un omosessuale dichiarato!”, tracannò e chiuse accennando una mossetta. Gli altri scoppiarono in un applauso condito da qualche ironico “Braaavo!”, mentre io rimasi basito. Immobile. Ricordo che ero seduto in fondo, proprio al centro, un gradino sopra a tutti, avevo tutto(i) sotto controllo, e forse fu quella posizione privilegiata che mi espose al colpo. L’ostentazione di Gianfranco attraversò il corridoio cogliendomi impreparato a gambe aperte sull’ampio sedile, colpendomi in pieno petto e scuotendolo con la potenza prevaricante della verità. Una verità tanto irrisa quanto festosamente dichiarata... propugnata. Strinsi gli occhi di fronte a quell’uomo di onore e m’estraniai. Sentii allora il sole girare sotto la terra che mi reggeva e mi sentii povero. Povero e bugiardo, intrappolato in una recita che non era la mia vita, spinto da una paura del mondo che mi condannava alla titanica impresa di dominarlo, mentre lui in quell’attimo era stato felice, libero. Libero! Nudo e saltellante, leggero, senza basti, senza maschere, senza ipocrisie, senza copioni. Dovevo capirci qualcosa, quella sensazione fu uno dei pochi momenti della mia vita in cui mi sono accorto di essere. La potenza del vero, la sua bellezza e la gioia che porta con sé, l’identità tra il vero ed il divino, la forma infinita del divino e l’essere. Essere. Questa concatenazione di pensieri, semplicemente accadde, mentre l’onda di quel messaggio mi attraversava il cuore. Quella fu per me un epifania, un satori -come si direbbe oggi. Fu per me un indizio, una traccia per provare a riscrivere la mia vita e cominciare alla cieca un percorso di onore e di onestà, fatto di deviazioni, pause frequenti; un percorso di ricerca, ispirato al bello da cui fui irradiato in quegli istanti. Per qualcun’altro sarà stata semplicemente l’occasione per un’altra risata e forse lo stesso Gianfranco, appena profferite le parole si morse un labbro. Poi tutto cessò, le luci si spensero e l’autista, finalmente in pace col presente, potè tornare a fare una corte sommessa alla Prof. Martellotta, un occhio al parabrezza e uno alla scollatura, mentre lei, in piedi sulla scaletta, lo aiutava a stare sveglio contando forse proprio su quel maglioncino di lana fina fina, con quell’ampia scollatura dalla quale tirava ogni tanto fuori una spalla. Dal mio seggio potevo vedere i sedili disordinatamente reclinati e indovinare lo sciabordìo dei giovani baci esplorativi, la radio suonava “Hotel California” e lo spessore delle emozioni che aleggiavano confuse in quell’ambiente oblungo pieno di corpi, pieno di cuori, era tale che potevo quasi toccarlo. Il sedile di Gianfranco era reclinato. “Per forza o per amore” pensai, “Perchè è il primo della fila, sedendo accanto alla Martellotta, tutta impegnata a tener ben sveglio l’autista”, ma poi ebbi come la sensazione di avvertire la fredda solitudine di Gianfranco. Si era messo giù perchè era solo, e quel pensiero mi fece male. I luoghi comuni, la paura, i comodi pensieri precotti, l’assenza d’interesse, la necessità di marginalizzare qualcuno, l’esigenza di sentirsi parte di una schiera, di possedere verità condivise, tramandate, tutto questo aveva costruito attorno a Gianfranco una prigione. Mi ribellai al pensiero di esserne responsabile, ma “correo” è il termine giusto. Mi sentivo complice di un linciaggio silenzioso e questo feriva il mio orgoglio, corrodeva le carni della mia vanità, altro che sorridente corsaro! Mi sentivo come l’ultimo dei laccai e provavo una insana vergogna perchè facevo parte di quella schiera di pecore dai denti aguzzi che avevano confinato -anche fisicamente- quell’essere incolpevole in quel limbo apparentemente senz’amore. Ogni tanto sento ancora la necessità di fare il guascone, o, per meglio dire: mi piace rompere il cazzo. Quando mi viene il prurito di rompere il cazzo a qualcuno, solitamente mi cerco un cosiddetto benpensante, una preda facile -da quel bulletto che sono rimasto- e lo faccio letteralmente a pezzi, consumando un’antica vendetta. E’ vero: non ho perso l’abitudine di nuocere, ma se è vero che “Chinaglia non può passare al Frosinone” anch’io ogni tanto devo portare a spasso il bulletto ch’è in me. Me li cerco con le spalle larghe e mi vendico per la fredda solitudine di Gianfranco, quel guerriero che mi mostrò una sera l’entusiasmo del vero, l’esaltazione suprema che si prova quando si bruciano le maschere e si guardano le menzogne arrostire e consumarsi, finalmente liberi di volare un attimo sopra le nubi, quanto basta per bagnarsi di luce e ritornare in picchiata ad occupare il proprio posto nel pullman della vita.Luigi Vittori
Scelte obbligate Bum! Bum! Bum! sono i venti di
guerra che spirano sopra l’innocente capo dei nostri
soldati di stanza in Oriente. Padri barbuti di figli
affamati danno battaglia ai figli cresciuti dei padri
sazi delle nostre lande. Potrebbe capitarci uno di
Lucera, che sa soltanto di essere lì ad aspettare
qualcosa che non arriverà mai: la pace. Luigi Vittori ... l'immagine dei miei pensieri chiusi dentro a una rete. Conosco quella rete e so di cos'è fatta. E mille fili sottili l'intrecciano e ognuno è un volto, ognuno è una parola, detta e non detta, scandita a volte, e a volte sussurrata. "Sei ciò che fai." So solo questo. Senza essermelo mai chiesto. (Ernesto) La rete mi contiene e mi qualifica. Dice, sua sponte. Risponde a domande che non potrò più farmi, e procurandomi scopi mi spinge. E spinge. Viaggio comodo, sostanzialmente. Sostanzialmente soddisfatto, m'adiro a tratti, penso poco - mi pare- e sostanzialmente passo il tempo a temere. Così mi pare, almeno. Riconosco un pensiero mio... no, m'illudevo soltanto. Difficile ricordare quando, ma è una risposta che ho già sentito, forse un volto, una parola, detta e non detta, scandita forse, o forse sussurrata. Rimane comunque una questione secondaria, a chi interessa la paternità dei pensieri? L'importante è che ci siano. Sicchè mi disturba l'assenza di un'intuizione, suggerita anch'essa dalla rete di voci che affollano il mio tempo, occupandolo con suggerimenti mai richiesti, testimoni di un'intima forma di controllo, una specie di alveo dove incanalare questo mio torrente vitale, inducendolo in percorsi guidati, a pantani dove stagnano altre acque deviate, fiumi vitali tutti confluenti, stretti in argini tessuti con parole e volti, visti e non visti, osservati forse, o forse scorti in una folla di parole. C'è come un ricordo, un sentore, una traccia odorosa in una stanza vuota. Chi sono io? "Sei ciò che fai." Mi è stato risposto, prima che m'azzardassi a domandare. Madre, sorella, o ladro, spia, infame o segretario, uomo, borghese o strampalato, eccentrico forse per vezzo... alfiere, partigiano, guardia, boia, sicario o macellaio, o tutto insieme, certo! Certo! Sono un uomo, e ciò che riguarda l'uomo mi riguarda. Ma chi sono, io? Sono forse impiegato? Certo: qualcuno m'impiega. Boia? Come tutti. E macellaio? Per procura. Partigiano come mi si vorrebbe, madre e sorella solo in supplenza, a brevi tratti. E dunque? E dunque nulla, mi manca un fotogramma: i miei pensieri chiusi dentro a una rete. Scorgo i tratti della rete, i suoi ritratti fatti da artisti famosi, alcuni mostruosi eppure tutti insufficienti, inadeguati a darmi un lume. E' come dire: "Non mi ci vedo in costume, non riesco a immaginarmici" ebbene a me manca la visione della mia mente in prigione. Me ne manca la visione. Questione di primaria importanza. Credetemi. Luigi Vittori - E che ti avevo detto io
che avrebbe vinto Berlusconi? Giulia. Dicassettenne studentessa sottile, dai capelli castani e gli occhi verdi, come tante meridionali con geni giannizzeri in corpo. Giulia. Dal fiato profumato e la voce sottile. Giulia dalle bianche spalle, dalle braccia delicate. Giulia brava a scuola, Giulia impegnata, Giulia libera, Giulia dai glutei un po' bassi e dal passo dinoccolato. Giulia dai lunghi foulards multicolori, dai jeans sdruciti dal tempo, Giulia delle marce per la pace, dal naso piccolo e il bianco sorriso. Giulia comunista. Giulia puttana, che si accompagnava a quello sporco presuntuoso barbuto di Marco, con quella borsa militare sempre piena di quadernacci scompaginati e libri che nessuno capiva tranne gli stronzi come lui, e che li usano solo per darsi delle arie. Giulia: fottuta da dietro in una vecchia Renault da un bastardo.... No! Non riuscivano ad immaginarselo, mordevano il lenzuolo e piangevano senza una parola, gemendo sommessi per pochi secondi. - A me "Le
Vibrazioni mi stanno sul cazzo". Con quell'aria da froci
sono più rattusi degli altri. Dovrebbero fare una
statistica: sono sicuro che almeno il 90% di tutti i
cocainomani alle prime armi osserva qualche secondo di
religioso silenzio allo sfilarsi la banconota dalla
narice. Sarebbero dovuti scendere immediatamente dopo
aver pippato, ma rimasero a bordo della Smart nera,
fermi per qualche istante ancora, chè Giulia aveva
svoltato l'angolo appena dopo di Marco, braccandolo. - Abbassa un po' il
finestrino - Fece Claudio - Mi sa tanto che litigano. - Perchè fai così?
Che cosa ho mancato di fare? Guardami! Guardami! - La
mano bianca afferrò la camicia verde del capellone
barbuto, che socchiuse gli occhi per frenare uno sgarbo. - Mi ascolti? - La voce rotta e Giulia aveva gli occhi in fiamme, il rimmel le colava sul bel viso, illuminato dalla luce arancione che giungeva dalla piazza, rendendolo di una tale dolcezza che Marco cedette all'onda dell'Amore e la strinse forte, accartocciando le sue spalle contro i suoi bicipiti in un abbraccio furioso, denso di odio e di sofferenza, anche fisica, per l'umiliazione subìta in quella notte da incubo italiano. - E Fabio? E
Claudio? Fabio indugiò sul
volto dell'amico che osservava attento e in quegli
attimi ne intuì i sentimenti, sentendosi istintivamente
ferito: "Mi ha sgamato, la vuole e la desidera anche
lui, come faccio io. La sogna, e sarebbe disposto anche
a vestirsi come quei quattro sporcaccioni di comunisti
antichi. Pur di averla, di poterle accarezzare i
capelli, di poterle baciare il collo, di scoprirle la
nuca" E languido si morse un labbro. "Non lo so, non so
se arriverei a tanto. Come cazzo glie lo dico a tutti
che sono diventato comunista? A zio Antonio, che mi ha
insegnato a guidare la macchina, onesto e buono fino
all'ennesima potenza. A mamma potrebbe anche piacere,
alla fine se lo voglio fare davvero mi dovrei decidere a
leggere tutte quelle cazzate, mi dovrei fare un
auto-lavaggio del cervello e cominciare anch'io a
stringere il pugno e cantare Bandiera rossa." - Non credo. - Rispose scettico Fabio. E ricominciò a pensare... "In divisa da ufficiale tedesco attillata e stretta in vita sarei bello sì, che sarei bello. Ma non sarei per lei, e a che mi servirebbe quella divisa, se non per proteggerla, per rassicurarla, per tenerla in braccio e non lasciare mai che i suoi piedi tocchino terra, a che mi servirebbe, se non per darle un giardino di rose un lettone bianco e morbido e tante giornate di sole? Ma da chi dovrei proteggerla, con quella divisa, se il nemico, per lei, sono io? E' me che teme, anzi teme la divisa e a me mi schifa. E allora vaffanculo! Troia. Restatene a piangere con quel panzone di Marco, quel pallone gonfiato che se mi girano i coglioni gli do tante di quelle botte che gli stacco la testa dal collo e ci gioco a pallone, come i mussulmani. (Continua...)
Claudio intanto era rimasto a pensare a quello dei maglioni, era una cosa che gli si era attaccata alla mente e non voleva saperne di sgomberare. Tediato da quel rovello si costrinse a pensare: " Questa è la cocaina, se sto chiuso un altro minuto mi metto a gridare." Istintivamente levò ancora lo sguardo verso i due amanti ormai del tutto riappacificati: "Povero Marco, però beato lui! E' uno stronzo, però... diciamo che è in gamba. A 'sto punto, meglio lui che Fabio. Mi dispiace, ma è così. Se lui si metteva con lei allora non potevamo essere più amici. Mi dispiace... ma è così" Li immaginò abbracciati ed ebbe un brivido anch'egli, che gli percorse la schiena da fondo a cima, così che sbattè le mani con forza ed esclamò: - "Meh!, che facciamo, scendiamo? Facciamo quattro passi. Fabio lo guardò un po' truce e, per il tempo di un lampo, anch'egli ricambiò l'occhiata, richiusero i finestrini e scesero dalla macchina coi loro bei pantaloni attillati. Marco era di spalle e la teneva per il mento, rivolgendo il suo bel viso alla luce della piazza, perchè lo rischiarasse. Aveva due labbra larghe Francesca, i denti bianchi e gli occhi ancora lucidi di pianto. E Marco l'amava.
Gli passarono
accanto pronti a deriderlo per la rovinosa sconfitta
elettorale, ma nessuno dei due osò di fronte a lei, ve
ne sarebbe stata abbondante occasione a posteriori,
intanto si godevano quell'aria fresca che entrava nei
polmoni, con la vittoria in tasca e la
festa su per le narici. Claudio camminava addirittura
guardandosi i piedi, se ne accorse e sbadigliò per
finta, facevan la loro entrata in piazza e bisognava
stare diritti. Sentiva lo sguardo di Francesca lambirlo
da dietro, era come una specie di piacere fisico che
gl'invadeva prima i muscoli dorsali e poi le spalle,
fino a piantarsi nella nuca e trasformarsi di repente in
un fastidioso senso di freddo, che lo costrinse a
scrollare la testa. Tutta la sequenza, sbadiglio-scrollone, gli rammentò il suo cane, Flop. Il
nome glie l'aveva dato sua sorella quand'erano piccini.
Era un bastardo di media taglia... in tutto e per tutto.
Capiva gli uomini come solo un cane sa fare. E capiva la
vita. Usciva a piacer suo, ed al ritorno abbaiava
sommessamente per farsi aprire il portone. Non stava via
mai più di un paio d'ore, il tempo per incontrare gli
amici e fare quattro passi o restare a criticare quei
coglioni dei giovani che perdevano il tempo a cercare di
mordere i(!) pneumatici oppure quei convinti dei volpini
che viaggiavano nel cassone degli apecar e ti guardavano
come se avessero capito il mondo da che parte gira. E
invece non ne sapevano niente, quei piscia-orti di merda.
L'amico di Flop non aveva un nome. Era un magro bastardo
di grossa taglia, nero e dai movimenti compassati. Gli
occhi erano del tipo "socchiuso", come piacciono agli
uomini. Pare che se li tieni socchiusi, gli occhi,
nessuno ti rompa il cazzo. La maggior parte delle volte
funziona, o almeno il magro bastardo la pensava così,
visto che teneva gli occhi mosci, come i cani vecchi.
Tanto giovane non era, aveva già passato i dieci da un
po', ma era riuscito a trombare quasi tutti gli anni, il
che, gli conferiva quel tanto di autostima da potersi
permettere l'occhio moscio e la camminata ciondolata.
Anche Flop era un discreto ciondolone, l'aveva visto
fare ad una vecchia cagna, si era pure avvicinato per
annusarle il culo, l'aveva fatto così, senz'alzare la
cresta... la vecchia camminava piano, teneva la bocca
aperta per il caldo e niente avrebbe lasciato pensare ad
una reazione così violenta e decisa: gli aveva quasi
afferrato l'orecchio. Fu un soffio, un soffio. Così
pensò che ciondolare, magari senza chiudere
eccessivamente gli occhi fosse, diciamo così: "fico".
Era giovane, allora. I primi tempi la sua andatura aveva
un che di studiato, infatti gli si rizzavano le orecchie
da sole, come se un rumore od un fruscìo avesse loro,
all'improvviso, trasmesso la vita. Alla fine l'abitudine
ebbe la meglio, ed il suo passo diventò l'invidia di
parecchi leccapiscio vagabondi. E lui lo sapeva e se ne
beava. Era, in fondo, un cane di famiglia, aveva un
pasto fisso ed una casa, andava al mare tutti gli anni e
quel po' d'artrosi l'aveva presa dormendo sul marmo di
Carrara. Per cui... si considerava un vitellone, uno che
annusa l'immondizia per istinto, quasi per dovere, senza
quell'aria sfranta che avevano quei quattro zotici
dormimpiazza che ringhiavano solo per le cagne in calore,
erano senza territorio e non avevano nulla. Beh, a dire
il vero la loro vita era tollerabile perchè potevano
andare dove gli fosse passato per il capo, ma in fondo:
perchè? Un giorno ebbe una discussione con un bastardone
bianco sui quattro-cinque anni, Lui allora ne aveva solo
tre. Si attaccarono perchè dice che l'angolo di palazzo
dei due bar non poteva essere pisciato da nessuno
all'infuori del bastardone.
(Continua...) Luigi Vittori
Si tirava diritto in quei tempi bui, rischiarati dal carburo statale commisto all'acqua dei torrenti, ancora quasi tutti intonsi e lontani dall'immagine odierna delle loro glabre sponde. E tiravano la carretta gl'italiani tutti: l'oro alla patria, il sangue, anche la vagina delle puttane, costrette in Grecia a scoparsi un battaglione. Puttane datate, invecchiate a forza di cazzi nel culo e pronte all'ultima battaglia pur di conseguire una vecchiaia pulita o una sùbita morte nel budello balcanico. Era facile, allora come oggi per gli artisti con sale, trovare il colpo d'ala. "Facile in tanto p(i)attume", sono questi i tratti che assume la critica a quelle melodìe con cu'il potere prendeva per il sedere il rassegnato gregge italiano. E i Pertini? I Prezzolini? Da buoni vicini batterono un colpo d'ala, chi in un modo, chi nell'altro, seppero farsi strada. Largo! Passano i migliori. Sapevano ciò che volevano e descrissero i loro fini intingendo il mitra nel fiele e la penna nel sangue, perchè ve n'era bisogno, ve n'era la necessità, e, diciamocela tutta, ve n'erano le condizioni. E' cambiato il clima, da allora. Cambiato non sol perchè fa più caldo, ma perchè quel sottobosco ignorante dei furbi italiani mal si coniuga col mestiere di giornalista. Criptico? No, la verità è che scrivo male. Per spiegare, intendo dire, ho bisogno di un appoggio, di un seggio, di un qualcosa che m'ispiri, che spinga e mi costringa a prolungare un pensiero, un'intuizione, qualcosa che ho pensato a colazione e messo via: come un panino in un cestino. Il mitra e il furbo sono oggetti passati, oggetti entrambi perchè usati. Oggi il furbo sottobosco italiano è circondato, è invaso da un glutine pastoso che assopisce le intenzioni, moltiplica i lacci e restringe gli orizzonti. L'informazione continua e non richiesta, l'informazione imposta... strozza, o, meglio: affoga, il naturale chissenefrega dell'uomo puro e lo inchioda lo bracca e lo piega, per conto del potere. Il potere dell'informazione continua e non richiesta, è potere, è sapere di potere. Le schiene si incurvano e il mento si alza, la nuca guarda il suolo e gli occhi al cielo, un po' sopra all'orizzonte, attenti attenti al ronzìo quotidiano, quello che accende e spegne le passioni, che spiega gli obblighi, che diffonde il costume, lo uniforma, lo cuce addosso a tutti. E dall'alto dei monitors stampa, il potere, il suo segno sulle fronti: signum facit, direbbero i latini. Gabbare il potere? Poveri sciocchi, gli stessi che pensan di gabbare i fessi, vanno incontro ad una fine dura. Insomma non c'è da sgambettare d'allegria, non serve il mitra, non serve l'albagìa, e se per caso il giornalista sciocco ferma l'eloquio di qualche poveretto ch'era sul punto di svelare il fatto, alzati e cammina! Prendi la penna e il foglio o batti i tasti della tua tastiera, traccia un disegno o, forse è meglio, spegni la tele e taci. Guardati dentro e scoprirai da solo, quanto è profondo il pozzo dove ognuno attinge pinte di buio, da riversare intorno. E non ci sarà bisogno di mostrarlo a nessuno, chè troppo è palese quanta pratica abbisogni lo scacciare di continuo queste immagini terrificanti, - reiteranti come mosche - di donne prone e signori del niente che intavolano banchetti di vuoto conditi dai parossismi spettacolari, accompagnati dai suoni rituali dei tamburi, dal battere delle mani, dalla cruda concupiscenza dei silenzi di fronte al dramma quotidiano, fra una spolverata di trucco e l'altra. Su cinquantotto milioni di teste ne spunteranno al massimo tremila, urlanti. E' gente che si dimena, dice tutto e niente e se per caso vuoi voltare il collo dall'altra parte ecco che vengono a strattonarti l'attenzione con le unghie affilate della paura. Questi tremila sono i nostri cani. "E le guardie? " Direte. "Quelle che ti bastonano e ti arrestano quando chiedi la pace? Cosa sono, se non i cani dell'eterno gregge umano?". Sono il filo spinato: colpiscono quando provi ad uscire. Uscire. Che gran lemma, che termine stupendo per descrivere una fuga. Uscire, U-sssci-re, sa di uscio, di qualcosa che fila liscio, è affine a sscivolare, come sugli sci; è come "lasciare", "strusciare". Uscire, con la "sci", sbiascicata, rilassata. Molto meglio che "scappare" o, "escatologia". Dovete convenirne. Comunque sia, c'è una regia. Se c'è spettacolo c'è regia, c'è perlomeno un soggettista, molti i cosiddetti "autori", e infine la folla di tecnici, nane e ballerini. Io non ci credo che tutti questi lombrichi siano veramente animati da un'idea, forse si tratta di uno scopo, ma la terra-una dei massoni benpensanti, mi sembra affare debole per consacrarci un'esistenza intera: meglio l'interesse personale, chiarisce forse più la situazione. Questa volta a Platone preferisco Aristotele: non voglio attribuire a questi anellidi alcuna dignità metafisica, alcuno scopo occulto, alcuna luce, preferisco credere che l'ideale di una terra-una non sia altro che il comodo mantello al cui riparo si nasconda l'ansia di... mi accorgo solo ora che mi manca la parola. Cosa vogliono costoro? Apparire? Guadagnare? Spendere? Non ditemi che hanno l'ambizione di contare qualcosa, vabbè che glie ne voglio, ma non fino al punto di negar loro un minimo di cervello. Sono i furbi di Prezzolini, quelli che vogliono mangiare. E sì che i ristoranti romani lasciano un buon sapore in bocca, specie per la subretta, a cui tocca, dopo cena, d'ingoiare sperma. Sono loro, i cani, quelli che ci abbaiano contro tutto il tempo, sempre, sempre, sempre: che occhieggiano dalle vetrine, che sorridono sugli scaffali degl'ipermercati, che ci riempiono la vita, sempre, sempre, sempre. Pensare che lo facciano tutti e solo per denaro mi sembra un po' riduttivo. Par che si giochi in certi ambienti un "Grande Gioco", il cui traguardo è quello di unificare i popoli sotto una stessa luce, tuttavia nel motore del "Grande Gioco" l'ideale rimane incombusto, espulso dal tubo di scarico della nostra storia, testimone dell'ingiustizia conclamata di cui sono intessute le sue vesti. Troppo enorme è stato il prezzo già pagato, quando la smetteremo non lo so, ma so che questa volta dovremo fare i salti mortali per venirne fuori con la pelle intatta. Luigi Vittori
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